La mia Biennale di Firenze

Alla Fortezza da Basso si è aperta la XIV Biennale di Arte contemporanea di Firenze ed io ci sono andata. Ma questa volta non proprio come spettatrice.

Questa edizione della Biennale è dedicata al tema dell’identità e così reca nella sua più semplice espressione curatoriale:

Il tema della XIV Florence Biennale è incentrato sui concetti di identità individuali e collettive, nelle loro molteplici accezioni filosofiche, psicologiche, sociologiche e culturali. […]

L’identità individuale e quella collettiva, d’altronde, possono essere considerate come due prospettive continuamente intrecciate, che solo nel loro insieme ci permettono di capire chi siamo o chi vogliamo essere. Il tema della XIV Florence Biennale abbraccia dunque una prospettiva integrata, considerando la sfera personale e quella sociale come due facce della stessa medaglia

Ho cercato di non pensare a questo evento fino ad una settimana prima della sua apertura.
Ho sbagliato orari, ho sbagliato prenotazioni, ho sbagliato foratura del quadro che è risultato storto, ho sbagliato outfit, makeup, insomma ho sbagliato tutto quello che potevo sbagliare.

Non volevo affrontare questo evento; me lo sono sentito addosso da subito come un esame universitario, ero già consapevole che il confronto con l’altro mi avrebbe demolita emotivamente. Sapevo che mi sarei accartocciata nella miseria del sentirmi il granello di polvere da spazzare via.

Ma ci sono andata lo stesso e ho affrontato la cosa lagnandomi costantemente in modo da non poter essere più patetica di così, ai miei propri occhi: quindi la voce “I am You” in questo caso spero non sia stata affatto calzante perché essere me in quella fase sarebbe stato deprimente per chiunque.

Una volta toccato il fondo mi sono saturata di tutto e me ne sono fisicamente andata (ho anche saltato la video intervista per problemi organizzativi), cercando rifugio a Venezia.

Rachel Ann Lacaba

Questa partecipazione mi ha permesso di sentirmi una merda – prima – e meno merda – durante e dopo – : ho scoperto realtà intense e modalità espressive diametralmente opposte alla mia, ma soprattutto ho indagato con grande timidezza su cosa sto cercando di fare davvero.
Non sempre, quando si parte, si sa bene cosa si sta facendo e il perché: anzi, alcune volte quel perché non c’è, si fa e basta. Come vomitare senza chiedersi se fosse indigestione o influenza intestinale.
Su me stessa ho scoperto cose nuove e ho finalmente intravisto un percorso tra le frasche della mia percezione, un sentiero che ha sempre sgomitato per emergere dalla confusione e che ha avuto bisogno di molti anni per posare le pietre sulle quali camminare.

Diciamo che questa Biennale m’è servita per guardarmi meglio allo specchio tanto da ripartire con la produzione e ritrovarmi al lavoro sul prosieguo di quanto ho imbastito dopo almeno cinque anni di blocco: un fermo dovuto alla società, dovuto agli spazi sbagliati, dovuto alla malattia, dovuto alla poca confidenza con una me stessa che oggi riesco quasi a perdonare.

Nonostante i mille video e le mille foto di mia moglie – forse la più grande supporter e groupie di tutti i tempi – voglio condensare questa esperienza in questa ultima, significativa, fotografia di me. E della mia fame di tutto.

Che fame.

Ho anche potuto comprendere uno dei meccanismi fondamentali che risiedono alla base dell’Arte Contemporanea, cioè il blasonato rapporto di domanda e offerta: tolte le spoglie aspirazionali del sognatore o della visionaria, scrollato di dosso il carico di pensare alla vocazione e non alla pratica, ho sbirciato con occhio sadico tutti quei movimenti monetari e organizzativi che smuovono le grande macchine di fiere ed eventi del settore.
Qualora avessi creduto che leggere le sferzate di Lea Vergine, Sgarbi, Daverio e qualcosina di Bonito Oliva (con somma reverenza) mi avesse dato una lente di ingrandimento su determinati movimenti, oggi maggiormente posso collocare le loro critiche dentro un cerchio ben disegnato, dando ad ognuno un volto e smettendo di scambiarli per cappelli.

Nonostante ci sia sempre una minima delusione iniziale, tipica di chi cerca mecenati che scarichino la responsabilità di doversi vestire anche da venditrici di se stesse, ho potuto smettere di dare il fianco a questo mercato feroce definendolo per quello che è, senza nascondermi in fantasie ottocentesche: basta soffrire per qualcosa che in realtà non esiste.
E da artigiana che è abituata a testare sul campo la propria capacità di rispondere ad un bisogno, di trovare soluzioni, ho avuto quindi la possibilità di raccogliere tutto il mio imbarazzo e la mia delicata debolezza e investirli, dandomi lo sprint dell’avvio ma con rinnovati occhiali in modo da vedere non solo i semafori rossi ma speriamo anche quelli verdi. Verdi brillanti.

3 Emozioni positive: Entusiasmo, Stupore, Trascinamento
3 Emozioni negative: Demoralizzazione da confronto, Disincanto per la disorganizzazione, Stanchezza

Parola chiave di questa Biennale oltre il suo slogan: Minestrone


Cosa ho esposto: Un ponte tra memoria e dimenticanza

A Volte mi accorgo di aver dimenticato

Telaio serigrafico, seta di nylon fotoincisa, stucco, acrilico

《Quanto conta la memoria nel bilancio della nostra vita? Quanto è importante cercare di ricordare, rimestare in questa materia plastica che si cancella e sovrascrive andando avanti sulla nostra linea temporale? Ho scelto di raccontarlo con un telaio serigrafico, unico cimelio foroinciso di un lavoro artigianale che risale alla prima (di tre) generazioni di serigrafi doc, uno strumento che permette alle persone sofferenti di Immergersi in un mondo memoriale (sensoriale e memorabile) parallelo.
Lavorando con il corpo e con le mani è possibile creare ricordi nuovi che scavalchino, o aiutino, quelli che dalla mente scivolano via: questo concetto di memoria “inciampante” ritorna, sempre più importante, nei malati patologici psichiatrici e neurologici: per loro la memoria è uno dei primi bastioni dell’identità che vengono erosi senza pietà, lasciando tracce incompiute di qualcosa che si tenta di richiamare ma non si è in grado e tornare a quel momento diventa un’impresa sofferente; non si può più ricostruire quello che siamo stati, avvertendo lo smarrimento nella propria mente e nella propria capacità di distinguere quello che davvero è accaduto da quello che – forse – si è solo sognato o immaginato》

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